I transumani

Ci saranno attori d’avanguardia che chiamerò i “transumani” e loro animeranno – animano già – “imprese relazionali” in cui il profitto non sarà nient’altro che un obbligo, e non una finalità. Tutti i transumani saranno altruisti, cittadini del pianeta, nomadi e sedentari allo stesso tempo, uguali nei diritti e nei doveri verso i propri vicini, ospitali e rispettosi del mondo. Insieme, faranno nascere istituzioni planetarie e orienteranno le imprese industriali in una nuova direzione. Queste ultime svilupperanno, per il benessere di ciascun individuo, “beni essenziali” (il più importante sarà il “buon tempo”), e per il benessere di tutti un “bene comune” (la cui dimensione principale sarà l”intelligenza collettiva”).
Poi, anche al di là di un nuovo equilibrio mondiale tra mercato e democrazia, tra servizi pubblici e imprese, i transumani faranno sorgere un nuovo ordine di abbondanza, da cui il mercato sarà a poco a poco escluso a vantaggio dell’economia relazionale.” (p. 207)

Da dove verranno mai i transumani? Da un processo di selezione culturale all’interno della classe creativa che ha portato avanti il capitalismo:

“Quando un convoglio è in cammino, l’avanguardia conta molto di più dei generali che si imboscano in mezzo alle loro truppe. La Storia si biforca solo quando esseri avventurosi, preoccupati della salvaguardia della propria libertà e della difesa dei propri valori, fanno avanzare – generalmente con loro grandissima disgrazia – la causa degli uomini. Nell’Ordine mercantile, questa avanguardia è stata finora composta, come abbiamo visto di “cuore” in “cuore”, da quella che ho chiamato la “classe creativa”: imprenditori, inventori, artisti, finanzieri, dirigenti politici.

In avvenire, una parte di questa classe, che riunisce gli individui particolarmente sensibili a questa storia del futuro, comprenderà che la loro felicità dipende da quella degli altri, che la specie umana potrà sopravvivere solo stando unita e in pace. Smetteranno di appartenere alla classe creativa mercantile e rifiuteranno di porsi al servizio dei pirati. Diventeranno quelli che chiamo qui i “transumani”.

Altruisti, interessati alla storia del futuro, coscienti che la sorte dei contemporanei e dei discendenti li riguarda personalmente, preoccupati di dare aiuto, di comprendere, di lasciare dopo di loro un mondo migliore, i transumani non si accontenteranno né dell’egoismo degli ipernomadi, né del desiderio di distruggere i pirati. Non crederanno di essere i proprietari del mondo, ma ammetteranno di averne soltanto l’usufrutto. Saranno pronti a mettere in pratica le virtù del sedentario (vigilanza, ospitalità, senso del lungo termine) e quelle del nomade (caparbietà, memoria e intuizione). Si sentiranno allo stesso tempo cittadini del mondo e membri di diverse comunità. La loro nazionalità sarà quella delle lingue che parleranno, e non più soltanto quella dei paesi in cui abiteranno. Per loro, la ribellione contro l’ineluttabile sarà la regola, l’insolenza dell’ottimismo sarà la morale, la solidarietà servirà da ambizione. Troveranno la propria felicità nella gioia di procurare gioia, in particolare ai bambini di cui saranno responsabili.

Impareranno di nuovo che trasmettere è l’elemento distintivo dell’uomo.

Le donne avranno meno difficoltà degli uomini a essere transumane: provare gioia nel procurare gioia è una caratteristica propria della maternità. La progressiva ascesa delle donne in tutte le dimensioni dell’economia e della società, in particolare nella microfinanza, moltiplicherà i transumani… Tra loro, miliardari che hanno rimesso la parte più consistente della propria fortuna a una fondazione, innovatori sociali, professori, creatori, religiosi o, semplicemente, persone di buona volontà. Persone per le quali gli altri sono un valore in sé.

Mentre, nel mondo della penuria, cioè nel mercato, l’altro è un rivale (il nemico che arriva a contenderci i beni scarsi, colui contro il quale si costruisce la libertà e con cui non bisogna condividere nessun sapere), per il transumano l’altro sarà prima di tutto il testimone della propria esistenza, il mezzo per verificare di non essere solo. L’altro gli permetterà di parlare, di trasmettere, di mostrarsi generoso, amorevole, di superarsi, di creare più di quanto abbia bisogno e più di quanto si ritenga capace di fare. L’altro gli consentirà di comprendere che l’amore per gli altri, e quindi per se stesso, è la condizione per la sopravvivenza dell’umanità.

I transumani metteranno in piedi, accanto all’economia di mercato in cui ciascuno si misura all’altro, un’economia dell’altruismo, della disponibilità gratuita, del dono reciproco, del servizio pubblico, dell’interesse generale. Questa economia, che definisco “relazionale”, non obbedirà alle leggi della scarsità: dare conoscenza non ne priva colui che nefa dono.

Consentirà di produrre e di scambiare servizi davvero gratuiti – di distrazione, di salute, di istruzione, di relazione ecc. – che ognuno riterrà opportuno offrire all’altro, e di produrre senza altra remunerazione che la considerazione, la riconoscenza, la festa. Servizi non scarsi, perché più si dona, più si riceve. E più si dona, più si hanno il desiderio e i mezzi per donare. Lavorare diventerà, anche nell’economia relazionale, un piacere privo di obblighi.” (p. 208-209)

“I transumani formeranno una nuova classe creativa, portatrice di innovazioni sociali e artistiche, e non più soltanto commerciali.

I transumani metteranno a punto gli strumenti per la propria azione: così come i promotori del mercato creano imprese industriali, beneficiarie di risorse scarse, i transumani promuoveranno “imprese relazionali”, beneficiarie di risorse per la maggior parte illimitate. La loro finalità sarà quella di migliorare le sorti del mondo, occupandosi dei problemi che il mercato non potrà risolvere, controbilanciando la globalizzazione del mercato con quella della democrazia. In queste imprese, il profitto sarà un obbligo necessario alla sopravvivenza, non una finalità.” (p.210)

“Faranno la loro comparsa nuove imprese relazionali, in particolare per la gestione delle città, nel settore dell’istruzione, della sanità, della lotta contro la povertà, della gestione dell’ambiente, della tutela della donna, del commercio equo, dell’alimentazione equilibrata, della valorizzazione della gratuità, del reinserimento sociale, della lotta contro la droga e della sorveglianza dei sorveglianti. Si sostituiranno a imprese private e a servizi pubblici, si faranno carico della prevenzione delle malattie, del reinserimento degli emarginati, dell’organizzazione dell’accesso dei più deboli ai beni essenziali, in particolare all’istruzione, della risoluzione dei conflitti. In queste imprese, emergeranno nuovi mestieri. E vi si svilupperà una nuova attitudine nei confronti del lavoro, consistente nel provare gioia nel dare: far sorridere, trasmettere, soccorrere, consolare.

Insieme, queste imprese relazionali costituiranno una nuova economia, oggi marginale quanto lo era il Capitalismo all’inizio del XIII secolo, ma altrettanto premonitrice dell’avvenire.” (p. 211)

Data la diversa logica di riferimento, si può prevedere un conflitto tra economia relazionale e economia di mercato. Tale conflitto potrà essere però risolto sulla base del riconoscimento di un reciproco interesse:

“L’economia relazionale e l’economia di mercato avranno ognuna interesse al successo dell’altra: l’economia relazionale avrà interesse a che il mercato sia il più efficace possibile, mentre l’efficacia del mercato dipenderà in modo cruciale dal clima sociale generato dall’economia relazionale. Infine, le grandi imprese del mercato verranno giudicate sempre più spesso dai loro stessi azionisti, in base alla loro capacità di servire l’interesse generale e di promuovere le attività relazionali.” (p. 216)

L’iperdemocrazia è destinata a produrre un salto di qualità sulla via della civiltà di immensa portata:

“L’iperdemocrazia svilupperà un “bene comune”, che creerà 1′ “intelligenza collettiva”.

Il bene comune dell’umanità, finalità collettiva dell’iperdemocrazia, non sarà né la grandiosità, né la ricchezza, e nemmeno la felicità, ma la tutela del complesso degli elementi che rendono possibile e dignitosa la vita: il clima, l’aria, l’acqua, la libertà, la democrazia, le culture, le lingue, i saperi… Questo bene comune sarà come una biblioteca da mantenere, un parco naturale da trasmettere dopo averlo coltivato e arricchito, senza averlo modificato in modo irreversibile. Il modo in cui la Namibia cura la sua fauna, la Francia cura le sue foreste o alcuni popoli proteggono la propria cultura dà un’idea di ciò che potrebbe essere un concetto avanzato di bene comune. Quest’ultimo non potrebbe essere né una posta in gioco del mercato, né una proprietà degli Stati, né un bene multilaterale. Dovrà essere un bene sovranazionale.

L’aspetto fondamentale della dimensione intellettuale del bene comune sarà costituita da un’intelligenza universale”, propria alla specie umana, differente dalla somma delle intelligenze degli uomini.” (p. 216)

“L’iperdemocrazia realizzerà soltanto gli obiettivi collettivi. Consentirà così a tutti gli esseri umani di realizzare i propri obiettivi personali, inaccessibili attraverso il solo mercato: aver accesso ai beni essenziali, e in particolare al “buon tempo”.

Chiamo qui “beni essenziali” quelli ai quali ogni essere umano deve aver diritto per condurre una vita dignitosa e per partecipare al bene comune’. Tra questi beni essenziali, l’accesso al sapere, a un alloggio, al cibo, alle cure, al lavoro, all’acqua, all’aria, alla sicurezza, alla libertà, all’equità, alla dignità, alle reti, all’infanzia, al rispetto, alla compassione, alla solitudine, al diritto di lasciare un luogo o di restarvi, di vivere contemporaneamente più passioni o verità parallele, di essere circondati d’affetto negli ultimi giorni della vita.

Ciò condurrà alla soppressione di tutte le punizioni infamanti, violente, o che consistono nella reclusione.

Il bene essenziale principale sarà, dunque, l’accesso al “buon tempo”. Un tempo in cui ciascuno vivrà non già lo spettacolo della vita degli altri, ma la realtà della propria. Ognuno avrà la possibilità di scegliere il proprio modello di successo, di far sbocciare i propri talenti, compresi quelli che non conosce ancora. “Trascorrere del buon tempo” significherà allora vivere liberi, a lungo e giovani, e non, come nell’Ordine mercantile, affrettarsi ad “approfittare”.

Questi due progetti – individuale e collettivo – dell’iperdemocrazia si alimenteranno a vicenda: l’intelligenza universale dell’umanità aumenterà con il buon tempo di cui ciascuno potrà disporre e, a sua volta, l’intelligenza universale creerà le condizioni perché ciascuno goda di buon tempo. L’iperdemocrazia potrà esistere solo tra persone che abbiano accesso ai beni essenziali.” (p. 219)

6.

E’ molto difficile commentare un testo che opera una serie di previsioni storiche riguardo al futuro, sia pure a breve termine. Forse è più importante tenere conto dei presupposti su cui si fondano tali previsioni.

La “legge” tendenziale che Attali ricava dalla storia – vale a dire la rivendicazione della libertà individuale su qualsiasi altro valore – è stata riconosciuta sia dal pensiero liberale che da quello marxista in una diversa accezione. Nell’ottica liberale, la libertà individuale significa potere di scelta sulla propria vita non interferito né da vincoli comunitari né da vincoli statali. Il suo valore positivo, se si mette tra parentesi la banalità di identificarla con la proprietà privata e l’uso incondizionato di questa, consiste nel rivendicare il diritto dell’individuo di giocarsi la partita della sua vita. Il limite ideologico di questa concezione è che essa fa della libertà dell’altro il limite della libertà individuale: comporta, insomma, una corretta competizione, non la cooperazione o uno scambio che non avvenga all’insegna dell’interesse privato.

Per il pensiero marxista, questa libertà è piuttosto ristretta se l’individuo deve accettare le regole del gioco poste dall’economia capitalistica perché questa gli assegna un ruolo nel sistema produttivo che non può essere trasceso. In questa ottica, la cooperazione e lo scambio significativo tra esseri umani diventano strumenti di autorealizzazione e di liberazione. La libertà individuale, insomma, nonché un diritto, si pone come una conquista che non può prescindere dall’orizzonte dell’appartenenza sociale e dal riferimento all’altro come fine e non come scopo.

Attali innesta nell’ottica liberale lo spirito del socialismo umanistico preconizzato negli anni ’70 del secolo scorso da Erich Fromm. Egli ritiene che la libertà di cui gli uomini hanno bisogno non si esaurisce nel poter disporre dei propri beni, postulando un’autorealizzazione personale che non può prescindere dalla valorizzazione dei rapporti sociali non monetizzabili.

Il suo modello di sviluppo, che dovrebbe portare all’iperdemocrazia, appare molto simile a quello delineato da J. Rifkin ne La fine del lavoro.

Mentre però Rifkin si limita a prendere atto di una realtà – quella dell’associazionismo volontario – che egli prevede possa espandersi progressivamente, via via che le persone riescono ad imporre allo Stato di investire le sue risorse nell’economia sociale piuttosto che nelle multinazionali, Attali prevede che la classe mercantile, la quale ha promosso lo sviluppo della ricchezza capitalistica, giunta al suo apogeo, produca per selezione culturale (oserei dire per conversione) una schiera di mutanti transumani destinati a riabilitare il valore delle relazioni interpersonali non quantificabili, vale a dire delle relazioni sociali.

Come tutti gli autori francesi, Attali eccelle nella capacità di creare neologismi suggestivi. Transumano è un termine ricco di risonanze. E’ inevitabile ricondurne la matrice all’oltreumano di Nietzsche, inteso in senso proprio, e nell’uomo universale di Marx che, nella vulgata del marxismo sovietico, è diventato l’uomo nuovo.

Il termine implica intuitivamente un potenziale di sviluppo che va al di là del collo di bottiglia realizzato dalla civiltà mercantile, la cui straordinaria capacità di produrre ricchezza ha conciso con un progressivo rattrappimento dell’umano.

La necessità di un salto di qualità economico, politico e culturale, per evitare lo scivolamento del mondo in una sorta di bellum omnium contra omnes, è reale. Forse, però, la buona volontà di singoli individui – i transumani -, precursori di un nuovo mondo, non basta.

Un’economia sociale o relazionale, parallela all’economia mercantile e destinata a sopperire alla decostruzione dello Stato assistenziale, finirebbe con l’entrare in conflitto con le leggi del capitalismo e rischierebbe o di essere confinata nell’ambito dei contrappesi umanitaristici alla brutalità del sistema o di essere addirittura “riciclata” dal Capitale. La trasformazione di alcune ong in multinazionali mascherate da intenti umanitaristici, i cui capitali sono assorbiti in gran parte dai dirigenti e dai soci, è fin troppo eloquente a riguardo.

Ciò non significa misconoscere quanto di significativo, sotto il profilo teorico e pratico, c’è nellla proposta di un’economia sociale e relazionale. Non è un caso che su un modello di sviluppo incentrato sulle relazioni interpersonali di aiuto convergano gran parte dei sociologi, degli economisti e dei politologi che mantengono una loro autonomia rispetto all’apparato di potere capitalistico: Bauman, Rifkin, Latouche e ovviamente Attali.

Tale modello, però, implica una capacità di organizzazione dal basso, vale a dire dalla base del corpo sociale che sembra piuttosto aleatoria se essa non si iscrive nel quadro di un movimento politico. Appellarsi ai partiti nazionali socialisti è impossibile in un periodo in cui essi, in Occidente, appaiono tutti in grande affanno e travolti dalla marea conservatrice del centro-destra.

Il movimento politico in questione dovrebbe, pertanto, restaurare lo spirito originario del socialismo e del marxismo, che era e deve rimanere internazionalista.

Il dramma storico del socialismo, reso evidente dalla sciagurata scelta staliniana di costruire una società nuova in un solo paese, è stato quello di calarsi nei confini nazionali e di accettare il confronto con i partiti borghesi sul piano della gestione dell’esistente. Tale confronto è risultato infine perdente perchè ha costretto i partiti socialisti a inseguire il consenso di un elettorato la cui cultura non nutre alcun interesse per l’avvenire e il destino del mondo.

Di fatto, il trinomio democrazia, mercato, capitalismo non è estensibile a livello internazionale per l’incompatibilità tra il valore dell’uguaglianza intrinseco alla democrazia e la tendenza del capitalismo a produrre squilibri progressivamente crescenti nella distribuzione della ricchezza. Esso funziona come progetto globale solo nella misura in cui un numero ristretto di Paesi o addirittura, come è avvenuto negli ultimi anni, un solo Paese leader conquista e mantiene l’egemonia su tutto il resto del mondo.

La crisi del sistema, che Attali lucidamente descrive, giungendo a riconoscere che le previsioni di Marx si sono drammaticamente realizzate, potrà essere sormontata solo in virtù di un rilancio su vasta scala di un progetto socialista internazionalista. Tale rilancio, come accennato, non potrà avvenire partendo dai partiti socialisti che si sono estenuati nella vana rincorsa della governabilità del sistema a livello locale.

Ciò significa che il movimento socialista dovrà porsi non già su di un piano primariamente politico, ma culturale. Si tratta, infatti, di restaurare nell’uomo la consapevolezza del suo esserci, intesa come consapevolezza di una precarietà ontologica che il capitalismo con le sue promesse accentua piuttosto che lenire, e la consapevolezza del suo essere con, del suo appartenere ad una specie il cui destino ormai è di perdersi o di salvarsi nella sua totalità.

Il progetto è utopistico, ma, come giustamente rileva Attali, le utopie si avverano quando l’umanità si trova con le spalle al muro e non ha alternative. C’è da augurarsi che la presa di coscienza sullo stato di cose esistente nel mondo sopravverrà prima che si realizzi lo schiacciamento contro il muro.

Non posso non rilevare che i transumani cui fa riferimento Attali, in quanto “altruisti, interessati alla storia del futuro, coscienti che la sorte dei contemporanei e dei discendenti li riguarda personalmente, preoccupati di dare aiuto, di comprendere, di lasciare dopo di loro un mondo migliore”, sembrano identificabili con una classe di introversi nella quale confluiscono un certo numero di estroversi iperdotati. Penso di aver scritto già più volte che il “sogno” che giace al fondo del mondo interiore degli introversi è l’unica speranza di salvezza per il mondo. Mi fa piacere che Attali, per altre vie, giunga alla stessa conclusione.

Fonte: Nilalienum