Sociologia e psicologia: la consapevolezza definitiva

L’ansia esistenziale, non dovuta a conflitti, che comporta la consapevolezza di essere vulnerabili, precari, finiti e destinati a finire, è il bagaglio emotivamente più oneroso che la Natura, nel suo procedere casualmente, ci ha messo sulle spalle. Non pensarci, reprimere, rimuovere, negare questi contenuti è il rimedio più corrente, che però funziona relativamente. Anche se le persone, per difendersi dall’ansia esistenziale (lo sappiano o no), organizzano una vita totalmente integrata nella realtà, affaccendata e al tempo stesso distratta, è difficile che non si dia un momento di solitudine in cui essa salta fuori. Nella migliore delle ipotesi, ogni tanto è un incubo notturno (cadere in un precipizio senza fine, trovarsi in pericolo di morte, ecc.) a realizzarla.
Ho scritto nell’Abbecedario che fare i conti con l’ansia esistenziale è il primo passaggio importante sulla via di un’esperienza autentica, che implica la consapevolezza dell’esserci (qui e ora, nella dimensione dell’effimero) e, al tempo stesso, la coltivazione della vita negli aspetti che possono dare senso alla nostra vicenda personale.
Non c’è contraddizione tra il nichilismo filosofico e l’impegno personale, umano, affettivo, intellettuale, sociale, politico, ecc. Le persone che raggiungono uno stato elevato di integrazione del proprio essere riescono a far convivere queste due dimensioni.
Se dovessi fare un esempio, mi ricondurrei all’antropologo C. Lévi-Strauss e alla pagina conclusiva della sua prima opera (Tristi tropici) nella quale si trova scritto:
“Il mondo è cominciato senza l’uomo e finirà senza di lui. Le istituzioni, gli usi e i costumi che per tutta la vita ho catalogato e cercato di comprende sono un’efflorescenza passeggera d’una creazione in rapporto alla quale non hanno alcun senso, se non forse quello di permettere all’umanità di sostenervi il suo ruolo. Sebbene questo ruolo sia ben lontano dall’assegnarle un posto indipendente e sebbene lo sforzo dell’uomo – per quanto condannato – sia di opporsi vanamente a una decadenza universale, appare anch’esso come una macchina, forse più perfezionata delle altre, che lavora alla disgregazione di un ordine originario e precipita una materia potentemente organizzata verso un’inerzia sempre più grande e che sarà un giorno definitiva. Da quando ha cominciato a respirare e a nutrirsi fino all’invenzione delle macchine atomiche e termonucleari, passando per la scoperta del fuoco – e salvo quando si riproduce – l’uomo non ha fatto altro che dissociare allegramente miliardi di strutture per ridurle a uno stato in cui non sono più suscettibili di integrazione.
Senza dubbio ha costruito delle città e coltivato dei campi; ma, se ci si pensa, queste cose sono anch’esse macchine destinate a produrre dell’inerzia a un ritmo e in una proporzione infinitamente più elevata della quantità di organizzazione che implicano. Quanto alle creazioni dello spirito umano, il loro senso non esiste che in rapporto all’uomo e si confonderanno nel disordine quando egli sarà scomparso.
Cosicché la civiltà, presa nel suo insieme, può essere definita come un meccanismo prodigiosamente complesso in cui saremmo tentati di vedere la possibilità offerta al nostro universo di sopravvivere, se la sua funzione non fosse di fabbricare ciò che i fisici chiamano entropia, cioè inerzia. Ogni parola scambiata, ogni riga stampata, stabiliscono una comunicazione fra due interlocutori, rendendo stabile un livello che era prima caratterizzato da uno scarto d’informazione, quindi una organizzazione più grande. Piuttosto che antropologia, bisognerebbe chiamare «entropologia» questa disciplina destinata a studiare nelle sue manifestazioni più alte, questo processo di disintegrazione.
Eppure, io esisto. Non certo come individuo; perché, che cosa sono io, sotto questo rapporto, se non la posta, ad ogni istante rimessa in gioco, della lotta fra un’altra società formata di qualche miliardo di cellule nervose raccolte nel formicaio del mio cranio, e il mio corpo che le serve da robot? Né la psicologia né la metafisica né l’arte possono servirmi da rifugio, miti ormai passibili, anche all’interno, d’una sociologia di nuovo genere che nascerà un giorno, e che non sarà per loro più benevola dell’altra. L’Io non è soltanto odioso: esso non ha posto fra un «noi» e un «nulla». E se finalmente scelgo questo «noi», benché sia ridotto a un’apparenza, è perché, a meno di non distruggermi – atto che sopprimerebbe le condizioni dell’opzione – non ho che una sola scelta possibile fra questa apparenza e il nulla. Ora, basta che io scelga perché, a causa di questa stessa scelta, io assuma senza riserve la mia condizione di uomo: liberandomi così di un orgoglio intellettuale di cui misuro, da quella del suo oggetto, tutta la vanità, accetto anche di subordinare le sue pretese alle esigenze oggettive della liberazione di una moltitudine a cui i mezzi una tale scelta sono sempre negati.
Come l’individuo non è solo nel gruppo e ogni società non è sola fra altre, così l’uomo non è solo nell’universo. Quando l’arcobaleno delle culture umane si sarà inabissato nel vuoto scavato dal nostro furore; finché noi saremo ed esisterà un mondo – questo tenue arco che ci lega all’inaccessibile resisterà: e mostrerà la via inversa a quella della nostra schiavitù, la cui contemplazione, non potendola percorrere, procura all’uomo l’unico bene c sappia meritare: sospendere il cammino; trattenere l’impulso che lo costringe a chiudere una dopo l’altra le fessure aperte nel muro della necessità e a compiere la sua opera nello stesso tempo che chiude la sua prigione; questo bene che tutte le società agognano, qualunque siano le loro credenze, il loro regime politico e il loro livello di civiltà; in cui esse pongono i loro piaceri e i loro ozi, il loro riposo e la loro libertà; possibilità, vitale per la vita, di distaccarsi e che consiste durante i brevi intervalli cui la nostra specie sopporta d’interrompere il suo lavoro da alveare, nell’afferrare l’essenza di quello che essa fu e continua ad essere, al di qua del pensiero e al di là della società; nella contemplazione di un minerale più bello tutte le nostre opere; nel profumo, più sapiente dei nostri libri, respirato nel cavo di un giglio; o nella strizzatina d’occhio, carica di pazienza, di serenità e di perdono reciproco che un’intesa volontaria permette a volte di scambiare con un gatto.”
Questo brano va letto più volte per apprezzare il carico prodigioso di consapevolezza e di palpitante umanità che esso esprime, sia pure in una forma estremamente contenuta. La saggezza, peraltro, non ama la spettacolarizzazione.
Non c’è una ricetta per porsi sulla via della saggezza (termine retorico che non amo se non per l’etimologia che fa riferimento al sapore della vita, e che sostituirei volentieri co umanizzazione). Di sicuro occorre un grande impegno e, come primo passo, il superamento del banale narcisismo per cui dato che ci sono (mettendo tra parentesi di essere venuto dal nulla e che sarei potuto non esserci), e ho l’impressione che il mondo gira intorno a me, non capisco e non accetto che un giorno scivolerò nuovamente nel nulla.

Luigi Anepeta  (dal sito della LIDI)