E’ seduto lì, fissa il bianco muro incrostato di fuliggine, vecchio, antico blocco alla sua vista. Parla e rumoreggia frasi senza senso, alza la voce, si adira contro il nulla che gli si para innanzi, non capisce dov’è il cielo, non ricorda i capelli che carezzava alla figlia, è dimentico di lei bambina dagli occhioni grandi e impauriti. Rimane solo lì, a parlare al vuoto che rimbomba un eco di silenzio pieno di fantasmi.
Lei le sta vicino. E’ grande ormai, cerca tranquilla le sue piccole cose, seduta su una vecchia poltrona dai fiori spenti, una volta, pensavo che fossero accesi da un un sole pieno di colore. Lo ascolta, fa finta di nulla, distesa chiama al telefono e all’improvviso piange.
Mentre fuori il cielo tende a calare verso sera, mentre tutto fuori scorre piano e dolcemente, mentre il sole cade all’orizzonte, mentre tutto cade e accade.
Passa una donna veloce imprecando davanti a quel divanetto, porta scartoffie tra le mani, cammina veloce, adirata, offesa, nevrotica apre un porta. Lei continua a sentire le lacrime scendergli sul viso mentre parla al suo lontano amato, continua a parlargli, la voce trema, come se il danno della vita in quell’ora esatta l’abbia colpita come un lama sferzante direttamente al petto. Parla e trema. Il padre urla nel vuoto. La madre indifferente e offesa.
E tutto cala, scende il sipario che chiude la giornata, un manto riveste la città illuminata, gli occhi si chiudono per un’altra notte di nuovi sogni. Forse. Forse sarebbero stati nuovi sogni. Gli incubi a volte scompaiono proprio quando chiudo gli occhi. Ed è steso adesso davanti a me, un velo, un velo non del tutto pietoso, ma che perdura, un leggero appannarsi, un leggero distaccarsi da una troppo cruda realtà. Lontano, la musica che ci fa ballare nelle notti d’estate.
Dimmi amore, dimmi.